E’circostanza di comune esperienza che uno degli effetti della pandemia Covid 19 sia stato il vertiginoso aumento dei costi dei materiali di costruzione, con effetto gravemente distorsivo sull’equilibrio economico dei contratti in corso, capace di causare sensibili perdite su chi deve approvvigionarsi per l’esecuzione degli stessi.
La situazione è tanto drammatica da aver costretto il legislatore ad intervenire per ben due volte, prevedendo dei meccanismi perequativi obbligatori per i contratti pubblici, al fine di ristorare gli operatori di tali perdite.
Ci si riferisce innanzitutto all’articolo 1-septies del c.d. decreto Sostegni bis (D.L. 25/5/21 n. 73 come modificato dalla legge di conversione, 23/7/21 n. 106), che dispone la compensazione dei costi sostenuti dall’operatore, sulla base della rilevazione dei prezzi dei materiali effettuata dal Ministero delle Infrastrutture periodicamente con proprio decreto, applicabile a tutti i contratti in corso di esecuzione al 31 dicembre 2021 (a termini dell’ultima modifica apportata dalla Legge di Bilancio 2022). Successivamente, con l’art. 29 del c.d. Sostegni ter (D.L. 27 gennaio 2022 n. 4) il Governo ha sostanzialmente ribadito lo stesso meccanismo compensativo per tutti i contratti i cui bandi o avvisi siano stati pubblicati successivamente al 28 gennaio 2022 (e fino al 31 dicembre 2023).
Come si nota, delle improvvide formulazioni su riferite non possono beneficiare, a stretto rigore delle norme, di alcun meccanismo perequativo legale (né di revisione prezzi) tutti i contratti (magari aggiudicati negli ultimi mesi dell’anno scorso, ma) non ancora in corso di esecuzione al 31/12/21 (plausibile, considerando i tempi che normalmente intercorrono fra aggiudicazione e stipula) o addirittura quelli le cui gare siano ancora in corso di svolgimento (magari nelle fasi finali), a meno che la revisione prezzi non sia stata prevista nei documenti iniziali di gara da clausole chiare, precise ed inequivocabili 8ex art. 106, co.1, lett. a) del Codice appalti) circostanza, questa ultima, che nella pratica si rivela abbastanza rara.
Orbene, se al singolo contratto è applicabile l’art. 1664, co. 1, del codice civile (che prevede appunto la possibilità di adeguare i corrispettivi quando ricorrano circostanze imprevedibili), più o meno nulla quaestio.
Il problema è dato dal fatto che, innanzitutto, nella pratica dei contratti pubblici la norma in questione è quasi sempre derogata per espressa previsione negoziale. In secondo luogo, ma non meno importante, è che la disposizione civilistica prevede il meccanismo di revisione solo quando l’aumento dei materiali determina un incremento del prezzo finale pattuito superiore al decimo e la revisione solo per la parte eccedente detta percentuale.
Considerando che negli appalti pubblici, normalmente, il dieci per cento del prezzo costituisce proprio l’utile di impresa, con l’attivazione della norma in commento, l’appaltatore correrebbe il rischio di veder azzerato o fortemente ridotto il proprio guadagno: l’articolo 1664 c.c., anche quando applicabile per non essere stato espressamente derogato, non sembra rimedio sufficiente.
A meno di interventi correttivi in sede di conversione del Decreto Sostegni ter, la questione va risolta applicando altre norme dell’ordinamento.
Innanzitutto non sembra utile l’art. 1467 codice civile, risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta: porre fine al contratto, se non come extrema ratio, non pare conforme né agli interessi dell’appaltatore, che giustamente tende a portare ad esecuzione il lavoro e guadagnare, né della stazione appaltante, che si dovrebbe presumibilmente sobbarcare i costi di un’altra gara, violando il principio di buon andamento ed il criterio di economicità (non potendo, si ritiene, nemmeno limitarsi a far scorrere la graduatoria aggiudicando il contratto all’impresa seconda in classifica, nella gara originaria, che pure verosimilmente vorrebbe una revisione dei prezzi).
Teoricamente l’esecutore potrebbe cercare di farsi indennizzare per i maggiori costi sopportati attraverso la formulazione di apposite riserve in sede di contabilizzazione (soluzione pure prospettata da ANCE che, in periodo di vacatio legis, ha proposto bozze da utilizzare in questi casi).
Le riserve sono però rimedio tradizionalmente utilizzato prevalentemente per fronteggiare circostanze imputabili alla stazione appaltante e o derivanti da imprevisti verificatisi in fase esecutiva (ad esempio rinvenimenti archeologici o altri impedimenti costruttivi).
In altre parole, affidandosi all’istituto della riserva e dopo aver sostenuto i relativi costi, l’appaltatore correrebbe il rischio che il R.U.P. ritenga l’eccezione inammissibile e o manifestamente infondata, senza possibilità quindi di risoluzione in sede di accordo bonario.
In tale scenario l’unica via percorribile sarebbe quella di avviare un contenzioso con l’amministrazione. Rimane però difficile ipotizzare su che basi giuridiche potrebbe essere costruito il relativo giudizio (per quanto si diceva più su, si sta trattando di contratti che non prevedono clausole per l’adeguamento prezzi a termini dell’art. 106, co.1, Codice appalti, e per i quali l’art. 1664 c.c. sia stato derogato e o sia insufficiente).
Il rimedio che si ritiene preferibile consiste, una volta stipulato il contratto, di presentare apposita istanza al R.U.P. di rinegoziazione delle clausole dell’accordo.
L’amministrazione sarebbe obbligata a farlo in virtù degli articoli 1374, 1175 e 1375 del codice civile (applicabili anche ai contratti pubblici in fase di esecuzione ai sensi dell’art. 30 del Codice appalti): a fronte di sopravvenienze sperequative ed in assenza di specifiche clausole convenzionali, la volontà delle parti deve essere integrata sulla base dell’equità (anche da parte del giudice) in applicazione del principio di buona fede e correttezza contrattuale. Chiunque si sottraesse a tale obbligo di rinegoziazione per ripristinare l’equilibrio economico del contratto, anche la pubblica amministrazione interessata, commetterebbe una grave violazione del regolamento contrattuale stesso, come integrato dalle norme civilistiche – cogenti – appena richiamate.
La validità di tale ricostruzione è stata sostenuta, anche se non con specifico riferimento agli appalti pubblici, dall’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione nella relazione tematica del 8 luglio 2020 n. 56 (ed è stata già in alcuni casi recepita dalla giurisprudenza di merito; cfr. Trib. Roma, ord. 27 agosto 2020)
L’oggetto della rinegoziazione potrebbe essere quello di apportare della varianti in corso d’opera al contratto pubblico, a mente dell’articolo 106, co. 1, lett. c) del Codice appalti, che prevedano appositi meccanismi di revisione prezzi a favore dell’appaltatore.
Che la strada preferibile sia quella appena descritta è stato d’altra parte suggerito anche dall’ANAC (cfr. deliberazioni 1 luglio 2020 n. 540 e 25 novembre 2020 n. 1022, anche se, parzialmente contra, comunicato ANAC del 23 febbraio 2021 ove le varianti sono ritenute rimedi non privi di criticità), nonché dalla magistratura amministrativa (cfr. TAR Torino, 28 giugno 2021, n. 667) e contabile (cfr., ad esempio, Corte dei conti Emilia Romagna, deliberazione n. 20/2021).
L’eventuale rifiuto del R.U.P. di accedere alla rinegoziazione, sulla base di quanto sin qui scritto, potrebbe essere impugnato innanzi al competente tribunale amministrativo (ipoteticamente per violazione delle norme civilistiche, applicabili, su ricordate. Su questi temi si veda anche il paper tematico di Confindustria del 2 luglio 2021).
Certamente rimane auspicabile un ulteriore intervento del legislatore, riferito a tutti i contratti pubblici banditi e o in esecuzione nell’attuale congiuntura economica, come pure di recente richiesto dall’Authority anticorruzione (cfr. nota del Presidente ANAC a Governo e Parlamento del 22 febbraio scorso).
Avv. Prof Luca Pardi