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Le Azioni a Voto Plurimo Come Meccanismo di Rafforzamento Della Governance

La governance aziendale è una delle questioni più calde del diritto societario, non solo dal punto di vista dottrinale, ma soprattutto nelle realtà societarie di tutti i giorni.

Non è raro che sia interesse di un particolare gruppo di azionisti riservarsi i poteri di indirizzo strategici appartenenti alla maggioranza assembleare.

Oggetto di questo approfondimento è dunque l’annosa questione tra democraticità della società e rafforzamento della governance, trattando la particolare categoria di azioni a voto plurimo introdotte dal d.l. 24.6.2014, n. 91 convertito con la l. 11.8.2014, n. 116.

Strumenti innovativi, che consentono di superare il principio “one share-one vote” e permettono agli azionisti di riferimento o stabili di collocare sul mercato un maggior numero di azioni, incrementando in tal modo la liquidità del titolo, pur mantenendo un peso rilevante nell’assemblea dell’emittente.

1. Un breve excursus

In realtà, più che di innovazione sarebbe opportuno parlare di reintroduzione , infatti la maggioranza degli ordinamenti già sul finire del XIX secolo ammettevano, più o meno pacificamente, sistemi di voto sovraproporzionale, mentre più difficilmente erano ritenute legittime clausole che limitassero o escludessero il diritto di voto, ritenuto, prima, fondamentale prerogativa del socio e, poi, della partecipazione azionaria.
In Italia, se nel vigore dei codici di commercio del 1865 e del 1882, era diffuso utilizzo delle azioni a voto plurimo, il Codice Civile del 1942, redatto in un particolare momento storico-politico, propenso ad una rigida regolamentazione statale, optò per la scelta abolizionistica, introducendo, invece, le azioni a voto limitato.
Negli ultimi anni il dibattito sui criteri di attribuzione dei diritti di voto agli azionisti è diventato sempre più intenso.
In ambito europeo, a seguito della posizione espressa nel 2002 dall’High Level Expert Group on Company Law , secondo cui l’introduzione della regola “un’azione – un voto” doveva essere vista come uno degli obiettivi più rilevanti del processo di armonizzazione del diritto societario europeo.
La Commissione Europea, nel suo “Action Plan sul diritto societario e la corporate governance” del maggio 2003, aveva deciso di realizzare uno studio sugli scostamenti rispetto al principio di proporzionalità tra capitale e controllo esistenti all’interno degli ordinamenti dei singoli Stati Membri.
Lo studio, effettuato nel 2007, dopo un’ampia ricognizione dei meccanismi di rafforzamento del controllo (cosiddetti “control enhancing mechanisms”, di seguito “CEMs”) e delle deviazioni dal principio di proporzionalità del voto, non aveva evidenziato argomentazioni univoche a sostegno di tale principio.
Più recentemente, il Piano d’Azione della Commissione Europea per la modernizzazione del diritto delle società e il rafforzamento del governo societario del 2012 ha riproposto una riflessione sul tema con particolare riferimento al profilo dell’opportunità di incentivare gli azionisti a investimenti di lungo periodo, anche attraverso l’utilizzo di azioni a voto multiplo (e in particolare, delle loyalty shares ), sulla falsariga di quanto già previsto in alcuni ordinamenti come quello francese.
Il dibattito ancora aperto tra sostenitori della “democraticizzazione delle società” e “stabilità nel controllo”, vede la normativa italiana propendere verso quest’ultima.
Al fine di meglio analizzare la disciplina delle azioni a voto plurimo è necessario partire dall’analisi della categoria generale a cui queste appartengono.
2. I c.d. “Control Enhancing Mechanisms” e la loro opportunità
Il fenomeno della dissociazione fra proprietà azionaria e diritti di voto – come già evidenziato– è noto da tempo ai mercati e agli studiosi e rappresenta una costante nello sviluppo della moderna società per azioni .
Le deroghe al principio di proporzionalità fra diritto di voto e capitale conferito possono, astrattamente, risolversi sia in un incremento dei poteri della minoranza, come avviene, a titolo esemplificativo, quando si accorda un voto determinante su una o più materie ad una categoria azionaria rappresentativa di una porzione minoritaria del capitale sociale, sia in un incremento dei poteri dei soci di controllo: con riferimento alle une e alle altre, si usa parlare di Control Enhancing Mechanisms (CEMs).
I meccanismi di rafforzamento del controllo possono essere classificati a seconda della loro funzione, in “mechanisms allowing blockholders to enhance control by leveraging voting power”, in cui sono ricomprese le azioni a voto plurimo, senza voto e i gruppi piramidali e “mechanisms used to lock-in control ” che comprendono le azioni con voto determinante e i limiti al diritto di voto in ragione del possesso; la differenza consiste nel fatto che i primi consolidano il potere di controllo, mentre i secondi bloccano la costituzione o il trasferimento di una posizione di comando.
Viene poi individuata una terza classe di CEMs che raggruppano le fattispecie non qualificabili nelle classi precedenti, quali i patti parasociali, le partecipazioni incrociate e le golden shares.
Tali meccanismi contribuiscono ad allocare in misura non proporzionale i diritti di voto dall’effettiva partecipazione al capitale di rischio incrementando il potere della governance.
Che il rafforzamento della posizione dei soci di controllo possa essere un bene, viene dimostrato sulla base di una serie di argomenti, tra i quali il più significativo è che la stabile presenza di un socio (o di un nucleo di soci) interessati alla gestione della società può mitigare gli inconvenienti della separazione tra management e proprietà delle azioni, limitando il rischio di comportamenti opportunistici del management, e favorendo il punto di vista degli azionisti più sensibili alle prospettive di lungo termine della società.
D’altro canto, oggi più che mai, si è diffusa la preoccupazione per gli effetti negativi delle strategie d’investimento a breve termine degli azionisti e degli speculatori, che sono sempre esistiti, ma oggi hanno più peso di un tempo.
Questa preoccupazione ha suggerito l’introduzione di una nuova generazione di CEMs, consistente nell’attribuzione di poteri speciali di voto alle azioni detenute dagli azionisti che abbiano dimostrato fedeltà alla società mantenendole in portafoglio per un certo tempo (c.d. loyalty shares).
Un chiaro esempio è la maggiorazione del voto, sviluppata sulla base delle loyalty shares di diritto francese, che può essere introdotta da società quotate o in fase di quotazione. Questa attribuisce fino a 2 voti per azione, diviene efficace decorsi 24 mesi di detenzione minima continuativa (per le quotande è possibile computare il periodo pregresso di possesso), spetta a ciascun azionista che rispetti i requisiti di detenzione minima continuativa e decade se le azioni sono cedute o se cambia il controllo dell’azionista cui spetta la maggiorazione.
La maggiorazione pertanto premia gli azionisti stabili e contribuisce a formare una base di calcolo dei diritti di voto che varia, insieme al peso di ciascun azionista in assemblea, a seconda di quanti abbiano scelto di avvalersi o meno della maggiorazione.
Le azioni a voto plurimo, invece, trovano nel meccanismo cosiddetto “dual class” , di elaborazione statunitense (es. Google, Linkedin, News Corporation, Facebook), la loro massima espressione: si tratta di una categoria speciale di azioni, diverse dalle ordinarie, e che non perdono il voto plurimo se sono cedute o se cambia il controllo della società che le detiene (salvo ove diversamente previsto).
Tali azioni possono essere introdotte solo da società non quotate ma mantengono le proprie caratteristiche successivamente alla quotazione.
Le strutture dual class prevedono che le azioni a voto plurimo siano detenute dal socio di riferimento mentre le azioni ordinarie sono destinate al mercato e rappresentano uno strumento ideale per quelle società che abbiano un fondatore visionario, cui il mercato riconosca un valore creativo e strategico che giustifichi il suo ruolo di guida aziendale.
Per una società non ancora quotata, una struttura dual class presenta dunque numerosi vantaggi poiché consente di avere una totale prevedibilità della base di calcolo dei voti e del peso di ciascun socio, non soggetta a variazioni continue, anche passive, come invece accade nel caso delle società con azioni a voto maggiorato.
Una volta inquadrata la categoria generale è più agevole addentrarsi nella disciplina.

3. La disciplina
Il comma 4 dell’art. 2351 c.c., come modificato dall’art. 20 del d.l. 24 giugno 2014, n. 91, poi convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, dispone che: “salvo quanto previsto da leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritti di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Ciascuna azione a voto plurimo può avere fino a un massimo di tre voti”.
L’ambito di applicazione della norma è rappresentato dalle S.p.A. “chiuse” e aventi azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante .
Le azioni a voto multiplo costituiscono, innanzitutto, una categoria, ai sensi degli artt. 2348 e 2376 c.c.; si tratta, peraltro, di una categoria tipica, che si affianca a quelle già disciplinate dal legislatore, quali le azioni senza diritto di voto, a voto limitato o condizionato (2351, comma 2, c.c.), le azioni postergate nelle perdite (art. 2348, comma 2 c.c.), le azioni correlate (art. 2350, comma 2, c.c.).
Il legislatore fissa in tre il numero massimo di voti che può essere riconosciuto ad ogni azione, inoltre non vi sono ragioni ostative alla possibile previsione anche di decimali di voto.
Infatti tale possibilità è confermata dall’istituto della maggiorazione, di cui all’art. 127-quinquies TUF; nella misura in cui si prevede che “gli statuti possono disporre che sia attribuito voto maggiorato, fino a un massimo di due voti”, si ammette, infatti, la facoltà di una maggiorazione inferiore rappresentata necessariamente da un numero decimale.
Non è stato previsto un limite all’emissione di azioni a voto plurimo, mentre rimane il vincolo dell’art. 2351, comma 2, c.c. della metà del capitale sociale per le azioni prive del diritto di voto, con diritto di voto limitato o con un unico voto condizionato; essendo, così, sufficiente il 12,5% del capitale + 1 azione per avere il controllo di diritto.
In linea di principio, la creazione delle azioni a voto plurimo potrà avvenire nell’ambito, e per effetto, di una molteplicità di atti sociali, di seguito elencati: a) la costituzione della società; b) l’aumento del capitale sociale a pagamento (con e senza diritto di opzione); c) l’aumento di capitale gratuito; d) la conversione (obbligatoria o facoltativa) di azioni già emesse; e) la trasformazione, la fusione o la scissione della società.

4. Le questioni inerenti al quorum
Il quorum, o quoziente, esprime, in via generale, il rapporto fra due entità numeriche, poste l’una al denominatore e l’altra al numeratore, il cui ammontare minimo è stabilito dalla legge e dallo statuto .
Per quanto riguarda il valore da assegnare al denominatore, esso è talvolta individuato dal legislatore nel “capitale sociale” (così, per esempio, nell’art. 2368, comma 1, c.c. ove si dispone che “l’assemblea orinaria è regolarmente costituita quando è rappresentata almeno la metà del capitale sociale”) e altre volte dal “capitale (sociale) rappresentato in assemblea” (come avviene nell’ipotesi di cui all’art. 2369, comma 3, c.c., in cui si stabilisce che “[…] l’assemblea straordinaria […] delibera con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea).
Il calcolo dei quorum consiste, così, nella determinazione del numero di azioni o di voti favorevoli necessario per la costituzione dell’assemblea (quorum costitutivo) o per l’assunzione delle deliberazioni (quorum deliberativo).
Si noti che, mentre la nozione di “capitale sociale” è utilizzata per l’individuazione del denominatore sia con riferimento ai quozienti costitutivi che deliberativi, quella di “capitale rappresentato” è impiegata ai soli fini del calcolo dei quorum deliberativi.
Nonostante sia indiscussa la nozione di “capitale sociale” nell’ipotesi di default in cui ogni azione dia il diritto ad un voto, la quale corrisponde al numero complessivo delle azioni esistenti al momento dell’adunanza assembleare, la situazione è più complessa nel caso vi siano azioni con voto quantitativamente diverso.
La querelle dottrinale può essere semplificata in due orientamenti.
Un primo “estensivo”, che ritiene che le azioni vadano “pesate” in proporzione ai voti che attribuiscono, con la conseguenza che per “capitale” si dovrebbe considerare l’insieme dei voti esprimibili in assemblea, sia ai fini del calcolo dei quorum costitutivi, sia ai fini del calcolo dei quorum deliberativi (ivi inclusi quelli rafforzati); ed uno “restrittivo” che ritiene, invece, che le azioni a voto plurimo siano avvantaggiate solamente sotto il profilo del diritto di voto (ergo, ai soli fini del quorum deliberativo) e che non conferiscano una maggiore rappresentatività in termini di capitale sociale.
Questo secondo orientamento, di conseguenza, ritiene che le azioni a voto plurimo non impattino sul calcolo dei quorum deliberativi rafforzati che, vista la specifica funzione riservatagli dall’articolo 2369, quinto comma, c.c., continuerebbero a essere calcolati sulla base del capitale sociale e non in termini di voti attribuiti dalla singola azione.
Pertanto rispetto ai quorum costitutivi, in particolare, l’orientamento estensivo garantisce alle azioni a voto plurimo il massimo impatto, laddove l’orientamento restrittivo non gli riconosce alcun peso.
Al fine di valutare la validità delle tesi sopra riportate è d’uopo partire dall’analisi della disciplina.
La prima norma da tenere in considerazione, dettata per l’assemblea ordinaria in prima convocazione, ma pacificamente ritenuta applicabile a tutti i casi di quorum costitutivi, è rappresentata dall’art. 2368, comma 1, c.c., in cui si prescrive che: “l’assemblea ordinaria è regolarmente costituita quando è rappresentata almeno la metà del capitale sociale, escluse dal computo le azioni prive di voto nell’assemblea medesima”.
Si precisa subito che per “azioni prive di voto” devono intendersi le sole azioni che per previsione di legge o di statuto, siano dunque istituzionalmente sprovviste del diritto di voto nell’assemblea di cui trattasi (essendo ciò confermato dalla stessa lettera della norma che fa esplicito riferimento all’assemblea medesima, nonché dal successivo comma 3 del medesimo articolo), non ricomprendendosi, così, in questa definizione le azioni che, pur incorporando il diritto, non possono esercitarlo (ad esempio a seguito di patti parasociali).
Ciò si traduce nella constatazione che quando il denominatore della frazione è rappresentato dal “capitale sociale”, il legislatore mostra di non dare rilevanza al numero totale delle azioni emesse, bensì alle sole azioni con diritto di voto nella specifica adunanza.
Considerato che tale precetto è stato dettato con riferimento alla fattispecie tipica, e inizialmente unica, di azioni con voto quantitativamente diverso, risulta coerente estenderla alle altre ipotesi di voti sovra/sottoproporzionali rispetto alla partecipazione sociale attualmente ammesse.
Una prima conferma si ritrova, infatti, nell’art. 2538, comma 5, c.c. che, disciplinando le modalità di calcolo dei quorum nelle società cooperative stabilisce che: “le maggioranze richieste per la costituzione delle assemblee e per la validità delle deliberazioni sono determinate dall’atto costitutivo e sono calcolate secondo il numero dei voti spettanti ai soci”.
Un secondo elemento a supporto della tesi proposta è fornito dalla disposizione di cui all’art. 127-quinquies, comma 8, TUF, dettata dal legislatore in un particolare caso di azioni a voto quantitativamente diverso, e precisamente con riferimento alla maggiorazione del voto nelle società quotate, secondo cui: “se lo statuto non dispone diversamente, la maggiorazione del diritto di voto si computa anche per la determinazione dei quorum costitutivi e deliberativi che fanno riferimento ad aliquote del capitale sociale”.
Si dovrebbe ritenere che la medesima interpretazione possa estendersi anche ai casi in cui il denominatore della frazione sia rappresentato dal “capitale rappresentato”; diversamente argomentando, e non calcolando il peso specifico delle azioni, si introdurrebbe una limitazione del potenziamento del voto spettante alle azioni a voto plurimo, ovvero, un incremento della rilevanza delle azioni a voto quantitativamente limitato.
Non pare, quindi, erroneo ritenere che, nella determinazione del divisore dei quozienti assembleari – indipendentemente dal fatto che questo sia costituito dal “capitale sociale” ovvero dal “capitale rappresentato” – debbano essere computati i voti spettanti alle azioni, anziché il loro numero totale.
Da ciò ne deriva che, in presenza di azioni a voto sovra/sottoproporzionale, qualora il divisore del quoziente sia rappresentato dal “capitale sociale”, si dovrà fare riferimento al numero complessivo dei voti spettanti alle azioni emesse al momento dell’adunanza assembleare, mentre, nel caso in cui il denominatore della frazione sia dato dal “capitale rappresentato”, avrà rilievo il numero totale dei voti spettanti alle azioni intervenute.
Occorre, infine, precisare, in accordo con la ricostruzione prospettata, che i voti plurimi non saranno computati nella determinazione della base della frazione, qualora i) siano previsti (solo) per particolari argomenti non all’ordine del giorno, ovvero ii) siano sottoposti a una condizione sospensiva non ancora verificata.

5. Conclusioni
Al termine dell’analisi è interessante osservare che negli Stati Uniti, dove le aziende quotate a voto plurimo sono oltre 300, le performance di tali aziende siano state tendenzialmente superiori rispetto a quelle degli indici di riferimento. Ciò dovrebbe consentire di affermare che se introdotto, con gli adeguati presidi, il meccanismo sopra descritto troverebbe un favore da parte degli investitori (istituzionali e non) e determinerebbe dunque la creazione di valore.
In Italia, sebbene tale sistema sia ancora ad essere visto non di buon occhio, soprattutto dagli investitori, le società stanno iniziando a valutare il ricorso a tali sistemi rafforzativi della governance.
Degna di menzione sul punto è la recentissima adozione di tale modello da parte di una casa di moda storica come Ferragamo .
A parere di chi scrive la predisposizione di tali categorie di azioni potrebbe essere utile per avvicinare il mercato del credito azionario alle PMI italiane. In quest’ottica le azioni a voto multiplo permetterebbero di mantenere le scelte strategiche in mano agli imprenditori garantendo maggiore stabilità alla governance con grandi benefici in termini dell’incremento del valore azionario.

BIBLIOGRAFIA
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