Con il D.L. n. 179 del 2012 (Decreto Crescita 2.0) per le start up innovative ,poi esteso alle PMI innovative dal D.L. n. 3 del 2015, è stato introdotto nel nostro ordinamento il work for equity.
Intendendosi la possibilità di prestare lavoro a favore di una società ed esser remunerato attraverso strumenti partecipativi: quote, azioni, strumenti finanziari o diritti aventi ad oggetto l’acquisizione degli stessi[1].
L’obiettivo dell’istituto è quello di favorire l’accesso delle startup a prestazioni professionali qualificate che, nella maggior parte dei casi, per la loro onerosità, non potrebbero essere altrimenti fruite dalle giovani imprese, che normalmente fronteggiano carenza di liquidità.
Il maggior coinvolgimento dei dipendenti e dei collaboratori e l’avvicinamento dei loro interessi a quelli dei soci consentono, alla lunga, di migliorare le performance collegate al business e contribuire alla crescita della società.
Al di là dei benefici pratici, i soggetti destinatari degli strumenti finanziari godono di un significativo beneficio contributivo. Va segnalato, infatti, che le azioni, le quote, o gli strumenti finanziari emessi a fronte di prestazioni d’opera o di servizi, ivi compresi quelli professionali, non concorrono alla formazione del reddito di chi le presta. Questo vuol dire che i prestatori ricevono una quota di partecipazione della società e sono esentati dal pagare l’imposta sul bene o il servizio fornito; è chiaro che, pur trattandosi di esenzione, dovrà essere fatto ugualmente richiamo delle prestazioni in sede di dichiarazione dei redditi[2].
L’attuazione di un piano di incentivazione o remunerazione in base al D.L. 179/2012 coinvolge l’organo amministrativo e l’assemblea dei soci, che dovranno deliberare l’adozione dello stesso, secondo meccanismi che possono variare a seconda della tipologia del piano e dei suoi beneficiari.
È bene, anzitutto, prevedere nello statuto della start up la possibilità dell’adozione di tali piani sin dalla registrazione della società nei registri speciali. Lo statuto, inoltre, deve prevedere la possibilità che gli aumenti di capitale a titolo oneroso vengano sottoscritti da soggetti terzi non soci, per consentire l’attribuzione dei piani di work for equity a favore di beneficiari esterni come liberi professionisti o fornitori della società.
La mancanza di queste previsioni non impedisce l’adozione di tali piani, ma li subordina ad una modifica ad hoc dello statuto, comportando però un costo aggiuntivo in termini di diritti camerali, oneri ed onorari notarili[3].
L’assemblea chiamata a deliberare l’aumento di capitale (sia gratuito che oneroso) nella stessa adunanza deve approvare anche il regolamento del piano e modificare lo statuto per riflettere l’aumento deliberato.
Il regolamento contiene l’accordo fra i beneficiari dei piani e la società, e può:
- prevedere specifici obiettivi di performance, individuali e/o aziendali, ai quali legare la maturazione dei diritti sottesi all’assegnazione degli strumenti finanziari;
- condizionare la maturazione alla continuazione del rapporto di lavoro per un periodo minimo di tempo;
- obbligare i beneficiari a mantenere gli strumenti finanziari per un periodo di tempo minimo (c.d. “minimum holding period”);
- disciplinare espressamente la liquidazione degli strumenti finanziari in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro, stabilendo, ad esempio, che in caso di cessazione per giusta causa si estinguano tutti i diritti non ancora maturati.
Deliberato il piano, l’adesione dei beneficiari si perfeziona mediante la sottoscrizione di una apposita scheda di adesione, predisposta dall’organo amministrativo, che accerterà la sussistenza ed il mantenimento dei requisiti soggettivi in capo al medesimo beneficiario. Con la sottoscrizione di tale scheda, il beneficiario esprime la propria accettazione alla proposta di partecipazione al piano, concludendo così un accordo contrattuale integrativo del contratto di lavoro – nel caso si tratti di dipendenti – ovvero del contratto di collaborazione autonoma o del rapporto commerciale in corso con il fornitore o soggetto esterno alla società.
I piani di remunerazione e incentivazione possono essere attuati mediante aumenti di capitale sia a titolo gratuito che a titolo oneroso, nonché mediante operazioni di cessione a favore dei beneficiari di azioni e quote proprie della società, previamente acquistate dagli altri soci proprio al fine di destinarle al work for equity.
A questo punto è d’uopo però segnalare che il work for equity ha incontrato grossi limiti, dovuti principalmente alla difficoltà di quantificare i servizi dei soggetti beneficiari rispetto al valore della partecipazione della società, a cui si aggiunge l’obbligo del deposito di polizza assicurativa o fideiussione bancaria a garanzia del conferimento della prestazione d’opera o dei servizi nelle S.r.l.
Ai sensi dell’art. 2464 c.c., infatti, gli apporti di prestazioni e servizi resi a fronte di quote devono essere garantiti da apposite polizze fideiussorie o fideiussioni bancarie a carico dei soggetti che sono apportatori delle stesse. La norma si applica anche alle S.r.l. start up innovative, dal momento che il D.L. 179/2012 non la deroga, né la sua applicazione è mai stata esclusa dalle successive interpretazioni ministeriali. La polizza o la fideiussione bancaria devono garantire gli obblighi assunti dai beneficiari aventi per oggetto la prestazione d’opera o di servizi a favore della società, per l’intero valore ad essi assegnato. Tali garanzie possono essere sostituite, solo qualora lo statuto lo preveda, dal versamento a titolo di cauzione del corrispondente importo in denaro.
In conclusione si può quindi affermare che le oggettive difficoltà, per i beneficiari dei piani, di munirsi di una polizza o di una fideiussione, nonché il costo di tali operazioni, hanno reso quasi inutilizzabile lo strumento del work for equity così come previsto dalla legge, quantomeno con riguardo alle start up costituite in forma di S.r.l..
Avv. Giovanni Alessi
[1] Nel caso specifico dei dipendenti, è bene specificare che la retribuzione non può essere costituita interamente da equity in quanto, accanto a una componente partecipativa in misura variabile, per legge, deve essere sempre riconosciuta una componente fissa uguale o superiore al minimo tabellare previsto per il rispettivo contratto di inquadramento dal contratto collettivo applicabile.
[2] Laddove le partecipazioni vengano vendute, verrà tassata solo l’eventuale plusvalenza. L’aliquota da applicarsi in questa sede sarà non quella applicabile generalmente ai redditi da lavoro dipendente (purché si tratti di partecipazione non qualificata), bensì l’aliquota fissa del 20% che si applica al c.d. capital gain. Tuttavia, nel caso in cui gli strumenti emessi siano riacquistati, direttamente o indirettamente tramite controllate o controllanti, dalle società presso cui il titolare dello strumento ha prestato il proprio lavoro, il regime fiscale di favore viene meno. Il valore dello strumento finanziario assegnato verrà quindi considerato reddito di lavoro e come tale sarà soggetto a tassazione; rimarrà tuttavia applicabile all’eventuale plusvalenza l’aliquota del 20%.
[3] A tal proposito, si evidenzia come questi piani non possano essere adottati dalle S.r.l. semplificate, disciplinate dall’art. 2463 bis c.c., dal momento che lo statuto di queste è di matrice ministeriale e non può contenere tali specifiche previsioni.